Un albero con le radici verso il cielo, parole per comprendere il dolore. La storia di Elisa Luvarà

“Le parole con me si sono sempre fatte avanti, lasciandomi l’idea che il dolore può essere compreso”. Sono versi di Luigi Cappello, uno dei più grandi poeti contemporanei, recentemente scomparso.

Elisa Luvarà ha a lungo cercato le parole giuste per comprendere il dolore. E quelle parole hanno dato un senso alla sua storia. Una storia unica – come ognuno di noi lo è – ma al tempo stesso simile a quella di molti altri ragazzi e ragazze. Una storia piena di dolore, ma risplendente di luce.

Dall’esigenza di raccontare e raccontarsi è nato il libro “Un albero al contrario” (Rizzoli 2017) che giovedì 5 ottobre alle 18 a “Il Giardino della Madia” (via Pimentel 5 – Milano) verrà presentato in un incontro organizzato da Agevolando Lombardia, in collaborazione con Rizzoli e con il sostegno della coop. sociale Comin.

Come è nata in te l’idea di questo libro?

Ho sempre scritto, sin da bambina. Anche in comunità un’educatrice mi aveva regalato una macchina da scrivere! Io scrivevo i miei racconti e obbligavo i più piccoli a leggerli. Passavo tanto tempo a narrare, a immaginare. Ho continuato a farlo anche in Affido, tanto che un giorno la mia mamma affidataria mi ha detto: ‘Perché non racconti la tua storia? Potrebbe servire a te e agli altri’. Ho pensato: ‘Proviamo!’. È nato un diario, un lungo flusso di coscienza. Ho pubblicato questa prima versione del libro su una piattaforma di crowdfunding e inaspettatamente ho raccolto in poco tempo 4.000 euro, senza alcuna pubblicità. Dopo questa prima pubblicazione sono stata contattata da alcuni editori e in particolare ho ricevuto una proposta da Rizzoli, che mi ha subito convinto. Mi hanno chiesto di riscrivere il libro, con un nuovo taglio: dovevo staccarmi dal personaggio e avere una visione più obiettiva. Così dal mio diario è nata la storia di Ginevra, un vero e proprio romanzo, pubblicato a marzo di quest’anno.

Scrivere ti è stato d’aiuto per rielaborare la tua storia?    

Avevo tante cose da raccontare. Intrecci, storie, episodi anche divertenti, legami di amicizia con gli altri ragazzi… e qualcosa sul rapporto con la mia famiglia di origine. Scrivere mi ha aiutato a fare pace con aspetti della mia vita di cui non parlavo mai: gli incontri difficili con mia madre, i nostri dialoghi assurdi. È stato anche un modo per parlarne agli altri, a tante persone con cui non mi ero ancora aperta. Mi sentivo figlia di una storia complessa e antica, che sembrava lontanissima e troppo fuori dalla normalità, non mi andava di spiattellarla. Avevo paura di raccontare di mia mamma e della sua sofferenza mentale, che è ancora oggi un tabù per molti. La meraviglia è stata poter allargare il cerchio di persone con cui potevo parlare senza ferirmi. Mi sono sentita risarcita di un silenzio troppo lungo. Le persone che leggono questa storia mi stanno vicino come se tornassimo indietro nel tempo, al momento in cui provavo quel dolore.

A chi hai pensato mentre scrivevi questo libro?

I primi destinatari sono proprio le persone che stanno vivendo esperienze simili alla mia e gli operatori che lavorano in questi contesti. Ma negli incontri pubblici quando mi ascoltano persone che non conoscono queste realtà, sono ancora più contenta. Tutti pensano alla comunità come a una specie di ‘lager’, mi chiedono: ‘potevi uscire?’. C’è una totale ignoranza su questi temi, devo ancora specificare che vivevo in un appartamento e non in un carcere, e trasmettere l’idea che mi sentivo come in una famiglia allargata. Penso alla figura che nel libro ho chiamato Tilde, una delle educatrici, così materna e rassicurante. Penso alle vacanze e ai giochi insieme. Ho trovato spesso più reticenze da parte degli adulti che da parte dei ragazzi. Con i miei coetanei non era un problema pronunciare la parola educatore, al posto di genitore. Era importante spiegare loro bene le cose, senza fare drammi. Invece con gli adulti a volte era difficile: ci sono molto pregiudizi e devi proteggerti da domande insidiose.

Tu hai vissuto sia l’esperienza dell’affido che quella della comunità. Che idea ti sei fatta di questo mondo?

La prima famiglia affidataria da cui sono stata accolta non era preparata adeguatamente, ed è stata un’esperienza fallimentare. Poi ho vissuto in una comunità fino a quando sono stata accolta in affido da una seconda famiglia. Se scegli di fare affido devi essere una persona affettivamente satura, non deve mancarti qualcosa. Solo così riesci ad accogliere e a dare. Io stessa vorrei un giorno vivere questa esperienza, vorrei diventare un porto sicuro per qualcun altro. So che è importante avere il cuore libero e risolvere molte vicende del passato per non caricare addosso agli altri le tue frustrazioni: la strada per me forse è ancora lunga, ma in fondo non così tanto. Credo che anche mio marito Nico sarebbe perfetto per questa esperienza. La comunità è utile per un momento nella vita, direi necessaria. Dev’essere un periodo in cui ci si ripara in un luogo protetto, un posto per metabolizzare quello che è stato senza spargere sale sulle ferite. Mi è piaciuto molto che in comunità gli educatori mi abbiamo lasciato del tempo, non abbiamo deciso di curarmi a tutti i costi. La comunità però non può essere una soluzione definitiva: ai ragazzi devono essere offerti gli strumenti per diventare autonomi e aperti al mondo, anche se spesso è mancato loro un amore privilegiato. Perché, nonostante tutto, possono farcela.

E proprio ai ragazzi che vivono “fuori famiglia” che cosa ti piacerebbe dire?

Innanzitutto ai ragazzi che vivono un’esperienza simile alla mia vorrei dire di non sentirsi soli. Ognuno ha storie diverse ma è importante riuscire ad andare oltre al dolore, staccarsi dal passato, per diventare una persona adulta e vera. Non rimanere fagocitati dalla tristezza. Dirò una cosa dolorosa ma fondamentale: è importante salvare prima se stessi, non i propri genitori. Nessun genitore vorrebbe tramandare malessere ai suoi figli e riuscire a risollevarsi significa in qualche modo anche riscattare coloro che ti hanno messo al mondo. I figli rappresentano il prolungamento dei genitori: salvando te stesso dai un senso anche alla sofferenza di tuo padre o di tua madre e la elevi. Io ho rivisto mia madre solo dopo tantissimi anni: dovevo essere pronta, se lo avessi fatto prima ne sarei uscita distrutta. Si tende a parlare molto dei genitori e meno dei figli, mentre al primo posto deve essere messo il loro interesse.

Infine, perché la scelta del titolo “Un albero al contrario”?

Un albero solitamente si immagina con le radici ben salde a terra, ma può ricevere invece la sua forza anche dall’alto, avere le radici verso il cielo e nutrirsi della bontà degli uccellini di passaggio. È importante attingere dal presente, dalle persone che possono risarcirti. È così anche in amore, il passato non può impedirti di fare nuovi incontri. Come Ginevra, albero al contrario, non vedo l’ora di dare vita al mio nuovo albero.

Grazie Elisa per la tua storia delicata e potente, perché con il tuo narrarti sai essere già ‘porto sicuro’ per tanti ragazzi e ragazze. Per aver trovato, con profondità e al tempo stesso leggerezza, parole per comprendere il dolore. Il tuo albero sarà, anzi è, rigoglioso e bellissimo.

Intervista a cura di Silvia Sanchini

L‘evento di Agevolando Lombardia La pagina Facebook di “Un albero al contrario”

Contattaci per saperne di più