Natale a Capo Horn. I pensieri di un’educatrice a Natale
Negli anni che ho trascorso accanto ai ragazzi che abitavano la comunità educativa dove lavoravo, quando arrivava dicembre (ma che dico dicembre, si comincia già da novembre, ormai) c’era una domanda che mi risuonava sempre puntuale in testa.
Era il periodo del primo freddo, del buio più lungo, in cui si ricercava una bevanda calda, una coperta, un abbraccio. Il periodo in cui tutt’intorno si montavano luci, addobbavano alberi, acceleravano i ritmi delle giornate e le corse all’acquisto. Ma c’era anche la volontà di ritrovarsi, di dimostrarsi, di ritagliarsi del tempo per l’altro, che sia attraverso la ricerca più o meno sentita di un regalo o di un pranzo lungo giorni.
Ogni anno, mentre questi movimenti si realizzano, mentre il mondo si prepara ad accogliere la festività per eccellenza, ci sono tante persone che da questo movimento possono sentirsi alienate. Perché il solo pensiero le ferisce. Perché sentono di non aver qualcuno a cui dedicare del tempo e da cui essere cercati. Perché talvolta, probabilmente, ci si fa un po’prendere la mano dalla retorica della tradizione, dei valori saldi, di cosa si dovrebbe o non si dovrebbe fare, di cosa è bello e giusto, o di cosa non lo è. Oppure, perché non è detto che si abbia voglia di prendervi parte.
“Siete tutti felici e smaniosi, ok, d’accordo, ma io non me la sento quest’anno. No, quest’anno ho altro per la testa”.
A queste persone, purtroppo, non è concesso isolarsi, non accorgersi di quello che sta accadendo intorno a loro. Non possono prendersi una vacanza dalla realtà e tornare quando il peso che si trascinano sul cuore torna a nascondersi più facilmente tra le maglie della normalità.
Alcune fra queste persone erano, e sono, i miei ragazzi in comunità.
I miei ragazzi, quelli che in molti, adesso, sono già donne e uomini che nonostante le innumerevoli batoste e cicatrici, nonostante il mondo spesso non sia stato proprio clemente nei loro confronti, continuano sempre a farcela, a rialzarsi, anche quando sono a pezzi, e a trovare il modo di rimettersi in cammino. Queste giovani donne e uomini di oggi, all’epoca erano solo degli adolescenti, con i poster e le foto appese in camera, i vestiti buttati alla rinfusa dappertutto, e qualcuno che li inseguiva per farglieli riordinare. Proprio come tutti gli adolescenti… Solo che le loro camere erano all’interno di una comunità, questo posto mitologico e sconosciuto, per lo più, alla cultura popolare.
Un posto in cui molti di loro avevano trovato armonia, confronto, spazio per pensarsi, affetto, legami anche molto forti, ma che, a un certo punto, intorno alla metà di novembre, cominciava comunque a trasformarsi in un luogo diverso. Perché non era la casa dove si riuniva la famiglia, i fratelli, i genitori. Aveva un albero decorato e dei pacchetti, certo, ma era animata da persone che a un certo punto sarebbero potute tornare a casa per le feste, mentre altre no.
Ecco, in quel periodo dell’anno c’era soprattutto questa domanda ad assalirmi: “Che cosa posso essere io, per te, in questo momento?” Come la affrontiamo questa cosa, ogni anno?”.
Stare accanto a qualcuno in fase di crescita e con uno zaino di delusioni sulle spalle richiede una costante ricerca di equilibrio. E a Natale, tutto si giocava in un delicato incastro tra la voglia di normalità e la lacerazione della consapevolezza. Volontà di rendere quelle giornate il più piacevoli possibile, e coscienza di non poter comunque mai essere una mamma, un fratello, un nonno per loro, ma solo un educatore. Lo stesso educatore che ti sveglia la mattina, certo, che guarda al tuo benessere con attenzione e cura, ma che finito il turno ha probabilmente una famiglia dalla quale tornare.
Non sono qui a raccontare di quanto questo periodo possa essere difficile da gestire per chi vive un momento delicato, fuori dall’ordinario e complesso. Vi racconterò invece di come quei ragazzi risparmiavano le paghette per settimane, per acquistare agli amici dei pensierini presi dal negozio “Tutto a un euro”, e di quanto fossero orgogliosi di essere riusciti a trovare comunque qualcosa di carino. Vi racconterò della regola decisa all’unanimità sul fatto che la stella in cima all’albero di Natale dovesse essere messa dal più grande (quello per cui, forse, poteva essere l’ultimo Natale in comunità). Vi racconterò che tutti avevano in mente quale regalo avrebbero voluto dagli educatori probabilmente già dall’estate, e che se fosse stato fuori budget, beh, avrebbero potuto aggiungere qualcosa alla cifra finale. Vi racconterò anche che intorno al 23, organizzavamo un pranzo in comunità, tutti insieme: tutti gli educatori e i ragazzi riuniti in una tavolata lunghissima (forse la più lunga di tutte le altre tavolate, pensavamo!). Ciascuno dava il proprio contributo: chi aiutava in cucina, chi apparecchiava, chi pensava all’intrattenimento musicale, chi agli addobbi. E per me, la cuoca e i suoi giovani aiutanti volenterosi, pensavano sempre a un’alternativa vegetariana.
Vi racconterò che, a noi, piaceva prenderla con ironia. Sì, ironia, quella che spesso ci salva dal baratro con un battito d’ali leggero. E, alla fine, anno dopo anno, avevamo creato le nostre personali tradizioni: noi, a Natale, si andava alle terme. Pranzo leggero, costume da bagno, e tutti in macchina sulla strada deserta, musica a palla e canti a squarciagola. Si restava in pochi e si aveva la possibilità di parlare lontano dall’oppressione della vita quotidiana, ci si sentiva vicini nel condividere un momento unico all’anno. E un pochino ci sentivamo pure fortunati ad essere immersi nella tranquillità dell’acqua calda. Io, quel turno della giornata del 25 dicembre, me lo prenotavo già tempo prima.
Oggi, che non lavoro più in comunità, vorrei dire ai miei ragazzi, e a tutti i ragazzi che abitano, o hanno abitato, nelle comunità, in casa famiglia e in Affido familiare, che quel Natale alle terme mi manca moltissimo, perché era entrato a far parte anche della mia tradizione. Perché, in quel momento, non c’era nessun altro posto dove avrei voluto essere. Perché la mia famiglia c’è, e c’è tutto l’anno. Ma quel giorno era il nostro giorno alle terme, ormai. Perché a quella domanda ho scelto di rispondermi così: voglio essere la persona che ti aiuta a reinventare il significato del Natale, e che spera che tu un domani possa riassaporare anche il significato di “famiglia” semplicemente circondandoti di persone che ti amano, anche se non hanno il tuo stesso sangue. Persone che ti vedono. Che scelgono di esserci e di starti vicino. E che, soprattutto, puoi scegliere anche tu.
Samanta Ferri
Educatrice professionale e Coordinatrice del Care Leavers Network Liguria