Chiedimi se sono felice
Maria ha 31 anni, da 4 è mamma di Giorgia e da 1 mese di Enrico. Lei che a 12 ha vissuto il peggiore degli incubi che una figlia possa vivere e che oggi vuole essere “la mamma che non ho mai avuto”.
Maria non ci pensa nemmeno un secondo. E con quel sorriso, che è il suo racconto più bello, lo dice leggera: “Agevolando è stata un sacco di prime volte”. Maria pensa ai treni, agli aerei, ai viaggi, ai nuovi posti conosciuti, alle persone incontrate. Non pensa a quella prima volta; quella a cui chiunque pensa quando si parla di prime volte. Proprio lei che la prima volta, quella, l’ha vissuta con suo padre.
Sì è così, la storia di Maria arriva come una sberla, come un camion su un’utilitaria senza segni di frenata. E da qui in avanti, per chi legge, così sarà: una sberla. Una storia che non immagineresti mai guardando i suoi occhi, il suo ciuffo rosa e – di nuovo – quel sorriso largo quanto la felicità. La felicità di una mamma, la mamma di Giorgia, che ha quattro anni, e di Enrico, che ha un mese. La felicità della mamma che Maria ha sempre sognato di diventare. «Volevo essere la mamma che non ho mai avuto e costruire la famiglia che non ho mai vissuto. Poi è arrivato Alessandro, ci abbiamo pensato tanto e a un certo punto ci siamo detti “beh, cosa aspettiamo?”, e quattro anni fa è nata Giorgia. E ora Enrico».
Gli anni dell’infanzia di Maria a Câmpulung, 30 mila abitanti nel cuore della Romania, sono stati cancellati da un’esistenza che non può in alcun modo coincidere con l’essere una bambina. «Di me da piccola non ho ricordi, solo un albero di Natale. E mi è mancato, mi è mancato tanto. Mi è mancato essere figlia. Non avere responsabilità, vivere spensierata… Io mi sentivo ed ero responsabile di tutto, di mettere a tavola qualcosa a pranzo e a cena, di accendere il fuoco e lavare i panni a mano, perché termosifoni e lavatrice non c’erano. Io davvero non so cosa significhi essere figlia, perché non lo sono mai stata». Una mamma e un papà, biologicamente, c’erano. «Fino ai miei cinque anni eravamo tutti e tre insieme, ma lei, mamma, spariva di continuo. Prendeva e se ne andava, poi tornava. Quando avevo sei anni e mezzo hanno iniziato a litigare pesantemente e sono rimasta sola, con lui. Dovevo iniziare le elementari, ma entrambi dicevano che non potevano pensare a me, così sono stata per due anni con una zia; a nove sono scappata, per cercare mamma, e non l’ho trovata. Lui, papà, a un certo punto è tornato, con una nuova donna con cui sono rimasta quando è ripartito per lavoro. Era cattiva, davvero, pensava solo alle sue figlie, spendeva per loro anche i soldi che papà mandava per me. Quando lo ha scoperto è tornato e ha iniziato a bere. A bere tantissimo. È cambiato, lei è scappata e io sono rimasta con lui. Ha iniziato a trattarmi male, peggio, a incolparmi, a dirmi che mamma se ne era andata per colpa mia; che era tutta colpa mia. E poi è successo… Avevo 12 anni e ha abusato di me. Sono passati sei mesi, poi è ripartito». Lasciando Maria e quella voragine da sole. «Mamma un giorno è tornata, era l’8 dicembre, di notte; spuntava sempre di notte per non essere vista. Mi ha portato dei regali, poi è sparita ancora. Sono rimasta di nuovo con la zia e le ho raccontato tutto, le ho raccontato dell’abuso. Così, insieme, abbiamo cercato di nuovo mamma, e questa volta l’abbiamo trovata. Sono rimasta con lei un anno, ma il suo nuovo marito non mi voleva, diceva che non ero sua figlia e non spettava a lui mantenermi, non era lui a dover pensare a me. Papà ci mandava qualcosa, ma quando le ho raccontato che aveva abusato di me lei, mamma, non mi ha creduto, e alla fine delle medie mi ha detto che sarei andata da lui per l’estate, in Italia».
Ecco di nuovo il frastuono di un’assonanza insopportabile: una mamma che ti riporta al buio, dove i mostri esistono per davvero e non sotto il letto, ma sopra. E lì ti abbandona. «Siamo arrivate alla stazione di Salerno, siamo scese dal pullman e mi ha lasciato lì. Non ha nemmeno aspettato che arrivasse lui: avevo 15 anni, non sapevo una parola di italiano e mi ha lasciato lì». Che il papà l’abbia trovata, poco dopo, è difficile chiamarla “fortuna”. «Le prime settimane sono andate bene, poi ha ricominciato a bere. Ed è successo di nuovo, ha abusato di me. Era sera, sono scappata in strada e l’unico posto aperto che ho trovato era un’agenzia funebre. La signorina mi ha messo in mano 10 centesimi e mi ha detto di chiamare i Carabinieri, ma io non sapevo nemmeno dire “pronto”. Due ragazzi hanno capito che qualcosa non andava, mi hanno offerto un bicchiere di acqua e zucchero e li hanno chiamati per me. Ho passato la notte in caserma, ma non mi credevano. La traduttrice continuava a dirmi che se non dicevo la verità mi portava dalle suore. In ospedale la visita per accertare l’abuso è risultata negativa perché lui aveva usato i preservativi, ma non ci credevano. Così, la mattina dopo, mi hanno riportato a casa, da lui». Di nuovo riportata al buio. «Appena siamo entrati in casa sono andata in camera, lui era ubriaco e incosciente. Mi sono infilata sotto il letto, ho trovato i preservativi della sera prima, le mutande strappate e li ho portati ai Carabinieri. A quel punto sì mi hanno creduto, e hanno chiamato l’assistente sociale. Era il 23 agosto 2009, il giorno in cui è iniziata la mia seconda vita». Quella in cui, una dopo l’altra, sono arrivate la comunità e Agevolando.
«La comunità è stata la mia salvezza; lì ho conosciuto Monica, la psicologa tirocinante che parola per parola mi ha insegnato l’italiano e che anni dopo, quando ero già uscita, mi ha parlato di Agevolando, che ho conosciuto poco dopo». Altro capitolo di una storia che nonostante abbia appena 31 anni, quelli di Maria, sembra non poter stare in una vita soltanto. «Agevolando è stata un sacco di prime volte: il primo treno, il primo aereo, i primi viaggi. È stata un sacco di nuovi posti e un sacco di nuovi amici e amiche. Poi la vita va avanti, diventando mamma tutto è cambiato, è diventato più difficile vedersi… ma quando succede sembra che il tempo si sia fermato e ci abbia aspettato. Sono relazioni uniche, che non finiscono perché hanno avuto un ruolo determinante nel farmi diventare chi sono oggi. Condividere la propria storia con chi può capirla perché ne ha vissuta una simile ti permette di continuare a elaborarla. Oggi riesco a parlare del mio abuso con serenità perché ho capito che non è successo per colpa mia, che non ero io il problema. E Agevolando in questo ha avuto un ruolo fondamentale. Sì, ok, perché mi ha permesso e mi permette di fare un percorso di psicoterapia, ma soprattutto perché mi ha ascoltata. Qualsiasi sia la tua scelta Agevolando ti ascolta, capisce e sostiene. Avevo un sogno, costruire una famiglia, e Agevolando l’ha costruito con me, stando al mio fianco».
Eccola allora la seconda vita di Maria, quella in cui papà non c’è più stato e mamma è tornata, per continuare a sparire. «Ogni tanto arriva, sta, non fa nulla in casa e poi di punto in bianco sparisce, di nuovo. All’inizio per Giorgia c’è stata, e mi andava bene. Solo non sopportavo che la chiamasse “mia figlia” e che le dicesse di chiamarla “mamma”. Poi crescendo Giorgia ha iniziato a chiederle di più, di esserci di più, e pian piano lo ha rifatto: si è allontanata anche con lei. Ho avuto paura, paura di cosa potesse provare Giorgia quando spariva senza dire niente». Eccola una mamma, ecco mamma Maria. «Sono pure mamma di mia mamma. Non sono sua figlia, sono sua mamma, lei in una famiglia non sta starci. Ma non ho mai avuto paura che questo potesse influire sulla mia di famiglia, perché ho sempre desiderato e sognato il contrario di quello che ho avuto: non un marito violento, non qualcuno di arrogante e ossessivo; non lo voglio e non lo permetterei mai. È vero, nemmeno mia mamma ha avuto una vita facile, lo so, ma lei poteva denunciare, e non l’ha fatto. Diceva “poi cambia”, invece è solo peggiorato».
Lui, papà. Che in questa nuova vita è letteralmente sparito fino al 28 aprile scorso, per un incredibile disegno, o meglio un tratto somatico del destino. «Da quando mi hanno chiamato per dirmi che era morto, a marzo 2024, la mia testa lo ha cancellato; non riuscivo più a ricordami come fosse fatto. Quando mi hanno telefonato per dirmi che non c’era più ho risposto che per me potevano anche buttarlo in un fiume. Poi però è successo qualcosa. Ho iniziato a vivere un lutto diviso in due: il lutto arrabbiato di una bambina costretta a essere adulta e il lutto di una bambina per cui lui almeno, a differenza di mia mamma, c’era stato. Ad agosto di quell’anno, cinque mesi dopo, ho scoperto di essere incinta, e che questa volta era un maschio. Ho sperato con tutta me stessa che non gli somigliasse. Che Enrico, mio figlio, non somigliasse a Nicolae, mio padre. Invece…». E non c’è tentativo di fuga o somiglianza con papà Ale che la distragga. «Gli occhi, lo sguardo mi ricordano lui. Guardando Enrico mi sono ricordata com’era papà. Se questo mi piace? No, non mi piace», e a Maria scappa di nuovo un sorriso, dentro cui è impensabile capire o immaginare quante e quali difese, sofferenze e speranze si mescolino. «Ma non mi fa paura. Mi fa paura l’idea di perdere Giorgia, Enrico, o Alessandro, ma è la paura di qualsiasi mamma. E poi se la paura arriva mi basta pensare a quel giorno, alla stazione di Salerno, sola e senza parole; penso a ciò che da quel giorno ho costruito, e la paura passa. Oggi penso di potercela fare, sempre; penso molto più spesso al futuro che al passato, a quello che costruirò con i miei figli, che sarà quello che loro vorranno».
Maria basta osservarla per capire quanto sia retorico chiederle se sia felice. «Sì, sono felice. Se ci speravo? No, ne ero certa. Perché in questa felicità ci ho creduto così tanto che pian piano me la sono costruita».